I paralleli sono finzioni schematiche per affettare il mondo in porzioni digeribili, in fondo basta accartocciare la cartina per ritrovarseli tutti uniti. Napoli e Rio stanno sulla stessa linea, retta o sinusoidale, in tre o quattro dimensioni. Sono il futuro e il passato vicendevoli, sono la stessa terra emersa a capocchia in due mari diversi. Sono le due dimensioni attraversate da uno specchio che non riflette abbastanza. Sono la bellezza, di quella che puzza e dà fastidio e fa male e ferisce, la bellezza com'è quando la senti. Non la vedi, la senti proprio.
Stavo a Ipanema quando hanno bruciato la Città della Scienza. A guardare una ragazza che alle 11 di sera di un giorno lavorativo se ne andava su e giú per la ciclabile imparando ad andare sullo skate. La stessa tavola che usano culturisti steroidei o la gente che va a lavorare con la borsa sotto al braccio. Seduto col chopito al chioschetto mentre sullo spiaggione illuminato le panze di quattro ultracinquantenni rimbalzavano sudate giocando a calcio-tennis. Su uno dei millemila campetti pubblici attrezzati. Gratuiti. Perfetti. E quel signore in costume - farà il medico, o il ragioniere uno cosí - corricchiava su questo sconfinato lungomare nato libero e mai liberato da alcunchè.
Stavo lí a contemplare questa parte luccicante di meraviglia, mentre un amico che lí ci vive da anni mi raccontava della Rio Nord, quella distesa di povertà sudamericana che riassume 8 milioni di persone. E delle mitiche favelas, che ora lo Stato sta "pacificando" entrandoci con l'esercito, piantando bandiera del Brasile e lasciando tutto piú o meno come prima. In infradito, al caldo tropicale, cullato dalla distensione delle ore che qui hanno fisiologicamente altra durata.
Non ve la staró a menare con l'ennesimo reportage sulla città dei luoghi comuni. Sí, ci sono le puttane. Sí, ci sono gli italiani che vengono apposta per andare a puttane. Sí, è una città pericolosa. Sí, non è piú pericolosa di Napoli. No, non cominciamo la gara a quale città è piú pericolosa, che sta storia che tutto il mondo è paese è un'arma a doppio taglio che non mi va di rigirare. Ognuno ha le sue piaghe. Sappiamo tutto, basta leggere, e poi viaggiare, e parlare con la gente, ed aprire gli occhi. Quindi poche chiacchiere. Gli scugnizzi qua li chiamano "randagi", e sono fatti di colla il piú delle volte, e se ti riesce scappa. Veloce. Ma sono bambini, che se non c'hai niente da rubare finisce pure che ci vai a giocare a pallone a Copacabana. E giocano meglio di te. Queste cose le so perchè me le hanno raccontate, in tre giorni non puoi far altro che superficialissimo turismo.
Peró una cosa ve la voglio raccontare io, ha a che fare con noi e non è una roba strana. É il trasporto pubblico urbano in una città da milioni di abitanti, per lo piú poveri. Ecco... non so in che altro modo dirlo: funziona una meraviglia. Ci sono i bus, c'è la metro. E ci sono i taxi (che quasi dappertutto al rosso non si fermano, perchè poi finisce che spunta una pistola e allora è meglio di no). Ma soprattutto ci sono i "collettivi". I mini-van che ti prendono per strada a prezzo fisso (2,5 reais a testa... un euro, tipo) e ti portano piú o meno dove ti pare, se non ti allontani troppo dal tragitto previsto. Basta chiedere, si apre il portellone, ti stringi all'umanità varia che c'è dentro e via. 10-15 persone a ricarico continuo. Ne passa uno ogni trenta secondi, pure di piú. Guidano come dei matti. Sono veloci. Sono democratici. Sono del popolo, a dispetto della burocrazia delle licenze e delle lobby. E sono la loro soluzione ad un nostro problema. Ti verrebbe voglia di twittare sta roba a @demagistris, ove mai uno del suo staff lasciasse perdere un attimo i pensierini rivoluzionari da seconda media. Se il servizio pubblico è fallito e non funziona piú, la città è immobile e la gente non ha lavoro, fai 1+1+1=3 ed ecco fatto: piú trasporti, piú lavoro, si sta tutti un po' meglio. Succede cosí nel resto del mondo, che sia il legalissimo nord Europa o l'incasinato Sudamerica: c'è un problema e si risolve, in un modo o nell'altro, dall'alto o dal basso. Non si sta fermi a ruminare livore e autoassoluzione.
È la teoria della spiaggia, volendo farne massimo sistema: la spiaggia è la grande piazza di Rio, lo sfogo di una città, si vive di giorno e di notte, alla domenica o al lunedí, in ricchezza e in povertà. È di tutti, è protetta da tutti, tutti la amano e tutti la curano. È il NOI urlato da una collettività con mille problemi camuffati dal sole e dal sorriso. "Questa è gente che sape campà", dice il mio amico. Pure se per campare fa una fatica boia. Vi ricorda qualcosa?
Che a questa cartolina basti cambiar le coordinate per ritrovarci a casa nostra lo sapete meglio di me: la pizza e la picanha, il mandolino e la samba, o' sole e o' mare... rieccoli i nostri amati paralleli. Ma non è il sollazzo nei clichè che aiuta a capire il contesto. Per farla proprio banale: non si tratta di speranza, ma di sperare nella volontà. Se a Rio de Janeiro hanno il bikesharing come a Parigi e a Berlino, e nessuno si fotte le biciclette, qualche domanda - noi - facciamocela. Impariamo la lezione anche da chi non pretende di insegnarcela. Perchè alla fine noi rischiamo di morire bauscia puttanieri, mentre il mondo ci si rovescia addosso. La nostra ultima spiaggia ce la siamo bruciata, a noi che siamo sempre i piú furbi sono rimasti gli scogli.