venerdì 7 dicembre 2012

CENTOMILA EURO PER 99 ANNI DI PARCHEGGIO (MA COMM' SI' STRUNZ)

A Napoli si sa, lo sanno pure in Anatolia, c'è il traffico. E il parcheggio migliore, spesso, consiste nel far brillare la propria auto con una pratica carica di C4. E si sa, ma si sa un po' meno, che a Napoli i mezzi pubblici sono in via di estinzione: autobus tagliati, metro con corse ogni 20 minuti, Circumvesuviana moribonda. Quello che forse non si sa è che sono in costruzione da anni, da un sacco di anni, sopratutto nella zona collinare, dei parcheggi sotterranei. Ma non posti pubblici, attenzione. Non spazi da riempire per svuotare le triple file che bloccano il traffico, no. Box da vendere ai privati. Insomma posti auto solo per chi se li può permettere. Per questa cosa si è bucato il sottosuolo-gruviera di una città che si sfarina ogni volta che piove, che se ne cade molle al primo acquazzone, condannando alcuni quartieri a lustri di cantieri e caos annesso. E questa cosa, di per sé allucinante, mi dà la possibilità di allargare il ragionamento. Dunque...
Un box di questi è così piccolo che se c'hai il suv non c'entra, letteralmente. Costa in media dai 70.000 ai 100.000 euro. E non è che poi lo puoi lasciare in eredità a figli e nipoti. No: è tuo per 99 anni. Poi? Ti fotti, anzi si fottono i tuoi eredi, che poi senti le bestemmie.
E se li comprano, eh. Non vanno a ruba, ma quasi.
Perché?
E' questa la domanda.
Cosa stai comprando?
Se compri un box per tenere la tua auto al sicuro dai ladri, beh... è follia: quante macchine da 20.000 euro assicurate per il furto ti devono rubare per arrivare a 100.000 euro di danni? Ci hai mai pensato?
Ma la verità, lo sai, è che compri un box per dare un tetto alla tua auto. Per evitare di girare 3 ore ogni sera quando torni stanco dal lavoro e non trovi un posto nemmeno a pagarlo oro, tanto che poi ti convinci che pagarlo oro è, appunto, l'unica via.
Ancora meglio: paghi 100.000 euro per avere la possibilità di parcheggiare un'auto che di per sé ti costa altri 1.000 euro l'anno di assicurazione obbligatoria, e poi la manutenzione, e poi la benzina, e poi... E questo perché vivi in una città che ti assicura i costi della vita di una grande metropoli europea e la qualità di vita di un sobborgo pakistano.
Forse non lo sai, oppure lo sai e fai finta di non saperlo, oppure sei un cazzo di masochista e allora vafancul, ma: con 100.000 euro, in una qualsiasi anonima frazione di provincia italiana, ti compri una casetta vera, di quelle in cui vivono gli esseri umani, dico, hai presente? In quei posti dove magari per girare puoi usare la bicicletta, e il parcheggio, beh, è gratis.
Ecco, pensaci, Mario. E pensa a comm' si' strunz a vivere ancora a Napoli. Pure se Erri De Luca dice che ci sta la pizza che suona il mandolino cantando ca pummarola ncopp'. Eh.

martedì 4 dicembre 2012

ERRI DE LUCA CA' PUMMAROLA NCOPP'

Ilaria Puglia non si ferma a scrivere due righe sul blog come me. Ilaria Puglia prende e chiama direttamente Erri De Luca. Non finisce bene, per capirci.

mercoledì 28 novembre 2012

E' FACILE A FARE IL NAPOLETANO COI CLICHE' DEGLI ALTRI

Dopo aver appreso che Napoli è ultima penultima (dopo Taranto) in Italia per la qualità della vita secondo la classifica del Sole 24 Ore, Erri De Luca ha scritto ciò:

"Ignoro i criteri di valutazione ma dubito che siano adeguati allo scopo. C’è qualità di vita in una città che vive anche di notte, con bar, negozi, locali aperti e frequentati, a differenza di molte città che alle nove di sera sono deserte senza coprifuoco. Considero qualità della v ita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo. Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza. Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. Considero qualità della vita la storia che affiora dappertutto. Considero qualità della vita la geografia che consola a prima vista, e considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un “Ma faciteme ‘o piacere”.


Erri De Luca, per la cronaca, vive a Roma...

venerdì 23 novembre 2012

RIPORTIAMO LE FAMIGLIE AL PUB

Riportiamo le famiglie allo stadio, dicevano qualche anno fa. Ora la retorica è in via d’aggiornamento: riportiamo le famiglie al pub. Meglio. Basta violenza, dice la tradizione dell’indignazione. La violenza dei “pochi esagitati” – che da anni ormai “non possiamo chiamare tifosi” perché finisce che quelli, i tifosi, si incazzano e ci menano – ogni tanto te la dimentichi. Poi arriva un giovedì, che una volta di giovedì a pallone manco si giocava, ma tant’è: arriva un giovedì e c’è Lazio-Tottenham, ex Coppa Uefa, e scatta il promemoria del ridicolo. I fatti e i commenti, riassunti in fila, sono uno spettacolo dell’assurdo.
Fase 1: nella notte di mercoledì tifosi della Lazio assaltano un pub di Campo de’ Fiori e massacrano un gruppetto di tifosi inglesi: 10 feriti, locale devastato.
Fase 2: i tifosi della Lazio non sono più della Lazio, nel senso che non ne siamo certi e quindi evitiamo: il titolo diventa “ultras”, che sta bene su tutte le cronache da rissa, come il black block ai cortei. Alemanno istituzionalizza il frasario di circostanza: parla di “sedicenti tifosi, in realtà teppisti”.
Fase 3: arrestano un tifoso della Roma. E mo? Come la mettiamo col colore della violenza? E’ un derby?
Fase 4: l’assalto ha una matrice razzista, nel senso che il Tottenham ha una storia “ebrea”, e questo è un periodo un po’ così da quelle parti, e quindi possiamo smarcarci dalla logica “tifo violento” che sinceramente ha fatto il suo tempo. E invece.
Fase 5: allo stadio, all’Olimpico, nonostante la festa per il ritorno a Roma di Gascoigne, i “sedicenti tifosi in realtà teppisti” ricordano al mondo intero che loro – quelli “in realtà teppisti”, appunto – saranno pure sedicenti tifosi ma sono soprattutto fascisti. E quindi ecco i cori antisemiti in curva Nord: “Juden Tottenham, juden Tottenham”, e poi lo striscione “Free Palestina” (ché i sedicenti tifosi hanno molto a cuore la questione umanitaria, eh).
Fase 6: Lotito, presidente della Lazio, vince il campionato del mondo di arrampicata di specchi quando ribadisce, a cori ancora caldi, che mica è detto che quelli che hanno assaltato il pub erano sicuramente dei tifosi della Lazio. Non lo fa in latino, e di questo rendiamo grazie.
Fase 7: ovvero della figuraccia internazionale. In Gran Bretagna rimbalzano titoli “the stab city” da tutte le parti, e fai una certa fatica a dargli torto. E allora tocca subirci la…
Fase 8: quella in cui si indigna Abete, il presidente della Figc. Ok, è un grande classico della letteratura di genere, però come chiosa mantiene intatta la sua efficacia. Vi segnaliamo le immancabili parole-chiave: “condanna”, “solidarietà”, “altresì”, “auspicio”. Infilateci voi il resto, è un giochino in cui si vince sempre.
Fase 9: il capolavoro. L’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive presso il Viminale ha ovviamente osservato. E si sente in dovere di prendere l’ultima definitiva parola. E dice, letteralmente: “Non c’entra lo sport”.
Perché di “sedicente sport” trattasi, tradotto meglio sarebbe merda. Ma non si dice, fa cafone.

(anche su T-Mag)

NON ROVESCIATE LA BELLEZZA DEL GOL

Ora che l'ha fatto Mexes, possiamo parlarne? E' lecito argomentare che no, non è che ogni volta che uno fa un gol in rovesciata è il miglior giocatore della storia del calcio interplanetario e che no, il gol di Ibrahimovic non è il gol più bello della storia dei gol più belli della storia del calcio eccetera eccetera?
Lo so che ambite tutti ad esserci, a marcare il vostro tempo come il migliore di tutti i tempi, a salvarvi il momento per poterlo poi raccontare al nipotino su una sedia a dondolo, sotto il portico in una notte stellata e la staccionata bianca, "Io, caro Michelino, ho visto il gol più bello di sempre, lo sai?". E' un gioco facile che vale un po' per tutto, e si fa spesso. Ma fatevene una ragione: quel gol, qualsiasi gol in rovesciata, cioé frutto di un singolo - per quanto prezioso - gesto non può valere di più, anche esteticamente, di una sequela di eventi tecnici unici a catena, come un dribbling prolungato portato avanti per lunghi secondi, con l'affanno che ti mangia l'ossigeno, e il mondo là fuori che ha il tempo di chiedersi "COSA STA FACENDO?!".
Ecco, la rovesciata è una cosa che sanno far tutti i calciatori professionisti, più o meno bene. Si impara nei vicoli, per strada, da bambini. E ci provi, ogni tanto ci provi. Che sia in Nazionale, in Champions o in serie D. Ogni tanto ci provi, e ogni tanto ti riesce. Ma è un lampo, bellissimo e fragoroso, ma è solo un lampo. E non vale per classifiche di nessun genere.
Insomma, tutto sto sproloquio per dire a voi che osannate Ibrahimovic che ora vi tocca osannare pure Mexes. E che, cari miei, l'unica cosa che val la pena di raccontare a vostro nipote Michelino, se avete avuto la fortuna di aver vissuto nel tempo giusto, è una cosa così:

mercoledì 7 novembre 2012

BARACK VS. ALEMANNO

Alle 5:15 del mattino in Italia, Barack Obama annuncia su Twitter la sua rielezione a Presidente degli Stati Uniti d'America. E lo fa così: 

Alle 5:40 del mattino in Italia, il Consiglio Comunale di Roma approva il bilancio. Lo annuncia su Twitter il sindaco Gianni Alemanno. Così:

Il candidato si soffermi sulla comparazione dei toni nel rapporto causa-effetto.

venerdì 26 ottobre 2012

UN MINUTO DI SILENZIO PER UN MINUTO DI SILENZIO



Zitti. Tutti zitti. Ora, non domenica sera. Facciamo un minuto di silenzio per la morte della dignità, e facciamoci la croce una volta di più: viviamo in un posto che deroga al pallone l’elaborazione del lutto nazionale. Lino Romano, ucciso dalla camorra perché aveva l’auto sbagliata nel quartiere sbagliato, finisce così: nel ricordo dello stadio San Paolo, 60 secondi prima di Napoli-Chievo, tra “Borghetti chi beve”, una canna, e un po’ di cori contro la Juve. Muore una seconda volta nella formula più pelosa della retorica italiana: il silenzio che si trasforma in applauso, come ai funerali, con il rispetto ignorante di chi crede che il silenzio sia troppo poco quando invece è tutto. Muore ancora di più, perché affidiamo lo sdegno agli abitanti del San Paolo, che - con tutti i dovuti distinguo del caso – ospita un sacco di brava gente, ma anche il più puzzolente percolato della città, in una situazione perfettamente descritta da questo pezzo di Massimiliano Gallo.
Ormai il minuto di silenzio vale come metro dell’insolvenza morale: si gioca alle 15:01 quasi tutte le domeniche per i più svariati lutti: i militari caduti in azione, tipo una volta ogni tre mesi, l’atleta morto sul campo (salvo poi offenderne la memoria un annetto dopo, sempre allo stadio), il giornalista che stava simpatico a tutti, terremoti e calamità naturali in genere, nel ricordo dell’allenatore, del massaggiatore, del dirigente, della mamma del dirigente. E poi c’è il tifoso, ucciso da una città, da un Paese criminale, e omaggiato da chi di quel sistema fa parte. Ma attenzione: la qualifica di tifoso è gerarchicamente superiore a tutto, se sei un camorrista tifoso sei solo un tifoso, che va allo stadio ad omaggiare la vittima-tifoso, che è solo un tifoso, figurarsi una sua vittima. E’ un’occasione di grazia morale deflagrante, che innesca per un attimo il sentimento dell’umana pietà ma poi, un minuto dopo, lo spenge del tutto, lo digerisce come passato è passato eccetera eccetera. La digestione indigesta di un dramma assurdo. Che è finito in prima pagina di un quotidiano nazionale solo perché ce l’ha portato Roberto Saviano. Per caso, insomma. Ma abbandonare la morte di Lino Romano sul campo di un gioco, ne fa un gioco a sua volta: troppo facile lasciarlo andar via così. Non vale, non è giusto. Mi fa schifo.

E ORA TORNIAMO IN MANO A QUESTA GENTE QUI

Odo gli augelli far festa. Perché, in piena primavera da primarie, fatalmente le elezioni si avvicinano. È la politica che si fa la festa da sola ma non lo sa, aspettando la catarsi del voto a riportare questo pazzo mondo tecnico alla normalità. Il mantra che ascoltate ovunque è: c'è bisogno di una risposta politica, di un ritorno alla politica. A dire il vero a ripeterlo incessantemente sono i politici stessi,  facendo leva sull'ovvio malcontento della gente per le scelte impopolari del governo tecnico. Messo lì, è bene ricordarlo, per fare appunto scelte impopolari. Quelli poi so' bravi e hanno condito il tutto con una bella dose di antipatia, ma questo è un altro discorso. Insomma, così è facile: avete visto come state male? Colpa dei tecnici, ora torniamo noi, i partiti, che siamo la democrazia, eh. E allora sì che tutto andrà per il meglio.

Stacco.

Ieri in Senato erano in discussione gli emendamenti al ddl Sallusti che dovrebbe cambiare le regole della diffamazione a mezzo stampa. Una leggina, nel panorama generale. Eppure eccoli lì tutti ad affannarsi alla battaglia della botteguccia, blaterando di intese come se di intese ce ne fosse fisiologicamente bisogno ogni dannata volta per leggiferare.
Eccola spalancata la finestra su quel che è stato, quel che è, quel che sarà: ci hanno buttato dentro di tutto di più, scavallando la soglia della ragione e del risibile. Persino cavilli sulle ineleggibilità che proprio niente c'entrano con la legge in questione, sperando di farla franca nel nebbione del "si approva" compulsivo. Ad un certo punto, per dire, quando pareva che le cose filassero via in qualche maniera, si sono ritrovati a votare tre emendamenti identici in fila sull'obbligo di rettifica delle testate sul web: non ve la faccio lunga, ma la cosa era da comiche, ogni emendamento cambiava di pochissimo quello precedente con il risultato finale di aver distrutto la ratio complessiva, rimettendo tutto in gioco, di nuovo tutto in rissa.

Ma questo, direte voi (in faccia però, dovete dirmelo in faccia) è il problema di un Parlamento con una maggioranza Pd-Pdl che non deriva dalle urne.
Beh, allora guardiamo una parte sola, il centrosinistra, quelli che - ci scommettono tutti - vinceranno le elezioni. Dopo essersi scornati a lungo sulle regole delle loro primarie (roba che già lì uno vota Grillo per principio, quasi quasi) arrivano alla genialata rivoluzionaria: la registrazione online. E dai su, che siamo nel 2012. E invece no: prima comodamente a casa ti registri online, poi però devi stamparti la ricevuta, devi andare all'ufficio elettorale per ritirare il certificato, e poi con quello vai al gazebo dove si vota. Follia riassunta magnificamente da Makkox così.

Ecco, questa è la politica di cui tutti sentiamo disperatamente il bisogno. I politici salvatori della democrazia sospesa dal governo tecnico. Questa gente qui, con questo livello di incapacità colpevole, e di incuria della cosa pubblica.
Lo dissi prima dell'avvento di Monti e i suoi. Lo ridico adesso che a forza di choosy e cagate annesse si sono fatti odiare quasi come Schettino: se il dopo-Monti è il pre-Monti, Monti tutta la vita.

mercoledì 24 ottobre 2012

CHI CONTROLLA I FACT-CHECKERS?

Interessante l'iniziativa di Factchecking.it, il sito (con il quale ora collabora anche il Corriere della Sera) che si propone di coinvolgere i lettori nella verifica delle notizie pubblicate, di fare le pulci ai giornali, alla caccia di "notizie che non lo erano". Luca Sofri, di questa cosa, è un maestro. E lo stesso Sofri ripropone oggi il problema sfruttando l'esempio della donna nera "bruciata viva" dal Ku Klux Klan che invece s'era data fuoco da sola.
Io faccio un passo avanti: chi controlla i fact-checkers?
Esempio a tema: oggi su tutti i giornali c'è la gaffe di Richard Mourdock, candidato al seggio senatoriale dell'Indiana, che ha definito la gravidanza da stupro come "God's will", volontà di Dio. Su Factchecking.it la notizia è bollata come "affidabilità 0%". Poiché la policy del sito cerca di ispirarne un utilizzo razionale ("fallo in modo responsabile, valutando con attenzione ciò che segnali, utilizzando fonti attendibili e segnalandone eventuali limiti e contro indicazioni"), il passo successivo è capire come fa una dichiarazione pubblica di tale evidenza ad essere totalmente "falsa". Ebbene, il fact-checker del caso cita un pezzo del NYTimes a supporto della seguente motivazione:
"Affermare che Dio vuole qualcosa non significa affermare che ne vuole anche tutte le cause o precondizioni. Per esempio Dio vuole l’Incarnazione ma non vuole il peccato originale. C'è stata una notevole strumentalizzazione delle dichiarazioni di Mourdock"
Questa interpretazione della dichiarazione, nel pezzo originale, è dello stesso Mourdock: “God creates life, and that was my point,” Mr. Mourdock said. “God does not want rape, and by no means was I suggesting that he does.”

Ecco, il punto è: basta un pasticciata rielaborazione filosofica della volontà di Dio per definire una notizia "falsa"?
Non è che il fact-checking diffuso, magari, sta al controllo dei fatti professionale come il giornalismo della gente che fa video col telefonino sta al mestiere del giornalista professionista?

martedì 23 ottobre 2012

L'INDIMENTICABILE STORIA DIMENTICATA DI VIRGILIO MOTTA



Questa è la storia di Virgilio Motta, tifoso dell'Inter. Un tifoso strano, che faceva parte di un gruppo sì, ma di un gruppo che si chiamava "Banda Bagaj" (Banda bambini, in dialetto milanese) nato per portare anche i piccoli allo stadio. Un tifoso strano, un tifoso normale, se ci passate l’ossimoro. Un tifoso aggredito come un ultrà, che in quell'aggressione ci perde un occhio, che per quell'occhio avrebbe dovuto ricevere 140.000 euro di "danni", che quei soldi non li ha mai avuti. Un tifoso strano, che non è morto di calcio: è stato suicidato.
Sì, questa è la storia di Virgilio Motta, che il 24 maggio scorso s'è ucciso per colpa di questo Paese. “Anche” di questo Paese, va bene? Così mettiamo in conto le ovvie giustificazioni a latere. Quella di Virgilio Motta è una storia perché è un esempio perfetto di come funzionano le cose, nei giorni della puzza napoletana sdoganata sul servizio pubblico, o dei cori contro un ragazzo morto sanzionati con uno scappellotto.  Qui le cose non cambiano mai. E questa storia è un monumento alla merda stratificata nell'immobilità.
Virgilio Motta, padre di una bimba, è al Meazza per assistere al derby milanese del 15 febbraio 2009. Un gruppo di ultras milanisti cala dal secondo al primo anello per punire un gruppetto di interisti che hanno osato strappare uno striscione. Motta finisce per caso in mezzo alla rissa. Gli arriva un pugno che gli spappola un occhio.
Il 17 luglio 2009 il giudice Alberto Nosenzo condanna a pene comprese tra sei mesi di reclusione e quattro anni e mezzo di carcere sei ultras milanisti accusati, a vario titolo, di rissa aggravata e lesioni. Luca Lucci, uno dei capi storici della curva Sud, viene riconosciuto colpevole di aver sferrato il pugno. A Motta viene riconosciuta invece una provvisionale di 140 mila euro a carico dei condannati "da versare in solido". La moglie di Lucci alla sentenza urla a Motta che "i 140 mila euro te li devi spendere tutti in medicinali, maledetto infame".
Ma in Italia funziona così, la giustizia: i condannati, semplicemente, non pagano perché quei "poveretti" risultano nullatenenti. E Motta non se li può spendere nemmeno in medicine quei soldi, come pure avrebbe voluto fare. Accetta suo malgrado persino una sorta di pagamento rateale: niente. Entra in depressione, piano piano. Spesso funziona così. In silenzio. Pur andando allo stadio, ancora. Senza bambini però. I bambini no. Tre anni dura. Poi, il 24 maggio, la fa finita. Il suo legale, l'avvocato Consuelo Bosisio, dice che "le sue condizioni psicologiche sono peggiorate perché gli imputati condannati per quegli scontri non gli hanno versato i 140 mila euro che gli dovevano come risarcimento e con i quali lui voleva andare a farsi curare all'estero”.
Ma sono parole a posteriori. E l'Italia è un posto che campa solo a posteriori. E non impara mai. Per dire: il 20 settembre i capi della curva Sud del Milan vengono ricevuti a Milanello per il “solito” faccia a faccia minaccioso con i giocatori, rito che usa un po' ovunque quando le cose vanno male e le società abbassano lo sguardo di fronte alle pretese violente dei tifosi. Ecco, a Milanello c'era anche Luca Lucci, il capotifoso nullatenente che tolse l'occhio ad un padre, allo stadio. Libero, Luca Lucci.
Facciamo finta che no, i cori allo stadio di Torino e di Verona non c'entrano niente con questa triste storia. E invece è proprio lo stesso fottuto campo da gioco. Ci sta bene tutto, sempre di più. Accettiamo che non ci siano più regole morali né giustizia. Che la stratificazione dell’impotenza azzeri la memoria e disinneschi tutto. Che senza muri, senza limiti, si campi meglio. E invece si campa male. A volte i più deboli non ci campano affatto.
Perciò è morto Virgilio Motta, tifoso x  di una squadra x, che andava allo stadio con i bambini.

venerdì 19 ottobre 2012

FACCIAMO CHE SPIEGO UN PAIO DI COSE A D'ALEMA

Facciamo come quando eravamo piccoli, che si giocava a "fare" gli altri. Ecco, facciamo che io sono un elettore, di sinistra persino, e c'ho D'Alema davanti che mi dice un po' le cose che ha detto ieri a Repubblica. Facciamo:

"Non è piacevole essere rottamato e senza indennizzo"

Onorevole, io sono costretto a chiamarla Onorevole da anta anni. Lei è Onorevole da anta anni perché un sacco di noi ha votato per il suo partito. Ora finisce la legislatura, si va a votare. Indennizzo di che? Chi la sta licenziando da un posto a tempo indeterminato? Cosa le spetta? Da chi le spetta? Il suo seggio è semplicemente scaduto, torna in gioco. Nemmeno Veltroni dobbiamo santificare, per dire. Questa cosa, detta così semplicemente, fa parte della democrazia. Ha presente?

"La Bindi è stata insultata da Berlusconi, c'è un dovere di rispetto"
Il postulato deriva da una specie di proprietà transitiva dell'insulto: se uno che io considero il male ha insultato uno, quell'uno è il bene. Giusto? Bene. Cioè, male.

"se si deve chiedere a qualcuno di andare via perché bisogna avvicendarsi, lo si deve fare con garbo"
Non è che glielo devo chiedere. E' che proprio lei, la Bindi, misterX, andate via di default. Se vuole gliela rispiego, quella cosa della rappresentanza popolare, quella robaccia delle elezioni. Ma con garbo, gentilmente, mi faccia la cortesia.

"dove non c'è rispetto non c'è stoffa da leader"
Il pulpito, onerevole, il pulpito. Scenda da lì, che le vien male.

"Se vince Bersani, lascio. Se vince Renzi no" (Questa frase non l'ha detta, in verità. Nell'articolo, non smentito, è dato per concetto assodato)

E qui Renzi vince game set match. Il punto è che in questa scelta c'è il riassunto di tutti i motivi per cui i D'Alema del centrosinistra debbono andare a godersi una sana vecchiaia in barca. C'è il flashback di Mastella e Bertinotti, e dei governi che cadono lasciando le macerie in pastoia a Berlusconi. C'è il potere più forte di tutto, la questione personale che rumina al di sopra del bene comune, del partito, degli elettori, dei cittadini. Se vince Renzi, si ricomincia a tirarsi calci nelle palle, da soli. La guerra intestina, il meteorismo elettorale. La merda democratica, proprio.

giovedì 18 ottobre 2012

PAROLE USATE COME DOVREBBERO

"È incredibile come i bambini si adattino alle superfici disponibili, usando marciapiedi, gradini e tombini. E come sappiano valersi di un mondo butterato per effettuare una delicata inversione, inventando qualcosa di armonioso e intelligente e governato da regole"

Don De Lillo per Umberto

"per poi passare il resto della vita cercando di ripetere il processo"

Don De Lillo per il papà di Umberto, che sarei io.

lunedì 15 ottobre 2012

I CAZZETILLI CON GLI ORAPI

Ieri a tavola, in una trattoria di un paese abbruzzese di cui non farò il nome (La Porta, a Scanno), in tavola c'erano dei meravigliosi "cazzetilli con gli orapi". Euro 6,50.
Non so se esista un presidio slow food, per questa cosa qui. Ma so che lo stesso piatto, messo in menù come "gnocchetti di grano duro tirati a mano alla vecchia maniera con riduzione di spinaci di montagna selvatici colti in uno stazzo concimato dai greggi in partenza per la transumanza" andrebbe via a 25-30 euro, e un paio di stellette Michelin.
L'Italia vera, quella del cibo veramente lento, è quella dei "cazzetilli con gli orapi".
Ho detto.

giovedì 4 ottobre 2012

VERIFIED BY VISA, IL MALE

Dici ma come è fico comprare la roba online: due click e hai fatto. E invece. Seguitemi, che la trafila della semplicità ai tempi dell'internet è una cosa da Kafka incazzato e ubriaco.

1) vai sul sito sul quale vuoi effettuare l'acquisto, e ovviamente, devi registrarti con conferma via mail. Facile.
2) scegli l'articolo che vuoi acquistare e vai a pagare.
3) scegli come metodo di pagamento Carta di Credito, la Visa
4) non gli bastano i dati della carta, entri nel fantastico mondo del Verified by Visa
5) reinserisci i dati della carta, ti chiede pure il CAP (immagino sia il Codice di Avviamento Postale, giusto per essere digitali), e inserisci la password che ti eri perfettamente appuntato sull'iPhone, ché lo sapevi che prima o poi ti serebbe servita.
6) no. La password non è riconosciuta. Riproviamo
7) niente. La password non è quella. Eppure ne sono certo: è questa! Vabbè, dai facciamo finta di averla smarrita e ce ne facciamo impostare un'altra
8) reinserisci tutti i dati e rispondi alla domanda di sicurezza (sì, Pulp Fiction è il mio film preferito)... no: non sei tu il titolare di questa carta di credito. EEEEH?!
9) contatti > assistenza > assistenza in base alla tua banca > driiiiiin
10) no signore, lei deve chiamare Barclaycard che ha emesso la carta
11) iscrizione al sito di Barclaycard, tre domande tre con doppia risposta d'emergenza, oltre a tutti i dati. Ok, ORA puoi contattare l'assistenza
12) immissione per via telefonica di tutti - TUTTI - i dati della carta: "Salve signore, sì signore, capisco signore... Ma le devo prima chiedere di reimpostare il codice di accesso telefonico, sa, sono cambiate le regole, resti in linea"
13) impostazione del nuovo accesso telefonico. Ritorno al menu telefonico principale
14) immettere di nuovo TUTTI i dati, immetterre il nuovo codice telefonico. Restare in attesa
15) "sì signore, capisco signore, dobbiamo rifare tutta l'iscrizione al programma Verified by Visa e resettare poi tutto il blocco. Le passo un collega, resti in linea"
16) "sì signore, capisco signore: resti in attesa... Sì, signore, la ringrazio per l'attesa. Ho segnalato il problema, abbiamo tutti i sistemi in aggiornamento, e speriamo che il problema si risolva al più presto. Nel frattempo se vuole può chiamare la Visa direttamente per sollecitare".

La prossima volta al mercato nero, in contanti, con banconote segnate di piccolo taglio. Sennò la rapina a mano armata.

sabato 29 settembre 2012

TWITTO NON BLOGGO (MA PER FABIO RIBLOGGO)

Non scrivo niente qui da un po'. Che tipo l'ultima volta avevo la barbetta prepuberale, tipo. Poi il mio amico virtuale Fabio Germani ha scritto sul suo blog questa cosa qui. Ha scritto, in pratica, che Twitter s'è mangiato i blogger. E ha indicato me quale ultimo esempio della deriva. Merita una risposta, proprio su queste pagine desolate e sconosciute ai più e ai meno.
Sì, non scrivo più sul mio blog. E sì, quando qualcosa mi viene in mente la butto su Twitter, subito. Veloce, breve, a caldo. E lì ormai finisce tutto. Perché? Due motivi: uno molto personale, l'altro molto personale ma che incrocia la tua teoria.
Primo motivo molto personale: sono pigro. Su Twitter condenso la creatività, perdo poco tempo. Mi spiego peggio? Non è detto. Ma è vero che non ci scrivo le stesse cose: sono due mezzi diversi, sui quali scrivo cose diverse.
Secondo motivo molto personale ma mica tanto: sono vanesio. Su Twitter ho un "pubblico", un numero più o meno certificato di gente che mi legge (i follower), e con la quale posso interagire. Se poi gli faccio schifo, boh. Ma intanto gli... arrivo. Sul blog? Chi mi legge sul blog? In quanti? Appunto.
E qui viene fuori il problema: le "blogstar" sono una cerchia molto ristretta, della quale non faccio parte. Vorrei, ma no. E non c'entra la qualità, la quantità di quel che fai. E' così e basta. C'è che si apre un blog per usarlo come diario personale, per sfogarsi fregandosene di chi legge. C'è chi lo fa dicendo che lo fa per questo. E io ero uno di questi. Ma poi lo sai che non è così. Scrivo perché qualcuno legga. Anche pochini, eh. Anche buoni. Ma senza un ascoltatore quel che dico non ha senso. E dopo un po' ho smesso di dirlo. Ecco.

(Il fatto, ora, è che ho rimesso mano al blog. E mo, chissà. Maledetto Fabio maledetto)

lunedì 2 luglio 2012

WHERE SO' FINISHED THE INGLISH PROF?

Hai, I'm yoar teacher of Inglish. Don't preoccup' boys, before I teachevo matematica, but the Gelmini reform wants that I teach to you a little bit of Inglish, and this are the results. But no panic. You record that Berlusconi seys ever that Inglish is the first "I" of his programm, no? E allo', now che vulite?
First lesson: the cat is on the table, vicin' the apple that is on the table too. This is the regol of the table, the most important in Inglish. I impared that yesterday night, because Gelmini genius has sayd that 340 (treee undred forty) hours are good to divent' Inglish teacher. Even if I'm 56 years old, and I know just just nu' poc' of franch. Capisc'?
You, at second bench, why are smiling? Are you sfotting me? How you permitt'? Mmmmm mmmmm (comm' cazz' si dice "dietro"...) go immediately aret' the lavagn. NOW!
- But, teacher, I speak english better than you. Are you kidding me?
SILENCE! you are in punition! Te si' giucat' the Internet access. And what seys ever Berlusconi?
- Internet è la seconda "I" del suo programma!
Very good boys. Now tell me this in Inglish!
- Internet is the second "I" of his program
Aspett' che sto pigliand' appunti... the second.... of his.... pro... gramm
Ok I'm stanc now. Passamm' alle tabelline yamm.
3x9?
9x9?
(oh my God, o' maronn')

venerdì 15 giugno 2012

UN CALCIO AL CULATTONE

Diciamocelo tra noi, nel nostro cortiletto da estenuati del gossip: non ce ne frega niente. Del calcio gay-free, della sua immagine da educanda, che non ammette pruriti, perché tutto cambia ma il nazional-popolare no: lo spogliatoio deve restare democristiano anni 50, proprio. Per quello funziona bene il giochetto: l’omosessualità nelle docce dei calciatori fichissimi è un evergreendell’intrattenimento mediatico. Basta che un Cecchi Paone qualunque butti lì l’idea della perversione sopita, ed ecco che schizza la pallina rimbalzina. Diciamocelo che non ce ne frega niente. Ma così non è. Perché a noi giornalisti lo spioncino piace, pure se poi ce la meniamo a fare i seriosi: dai, chi sono i “froci” della Nazionale? E’ il quiz dell’estate, guardi quelle sopraciglia troppo curate e il sospetto ti viene. Lo domandi a Cassano ed è ovvio che la risposta arrivi nei suddetti termini. E’ il popolo che parla, mica sogniamo di esser meglio di così. I “ricchioni”, gli “invertiti”, i “culattoni”… fuor di microfono il Paese del Grande Fratello li vuole così. Anzi, pure davanti al microfono se ti chiami Cassano. Ma che poi non si dica che siamo omofobi, no no. E’ il lessico nostro, degli italiani veri, e che differenza può mai fare. E infatti non la fa. La si butta in caciara per fare un titolo in più, metter su un boxino raccogli-click sul sito, è la prassi. Nemmeno gli omosessuali si indignano, ci mancherebbe. Pure se il Codacons cerca di imbandire una class action per danni morali contro Cassano, riducendo in fin di vita il senso del ridicolo, già malmesso di suo. Loro siamo noi, e lo sappiamo. Non è che i gay sono in mezzo a noi: siamo noi che siamo in mezzo a noi, senza farci il problema, e ridendo ogni volta che uno c’ha “tanti amici gay”. Il punto, più che altro, è che soffiamo su Cassano che commenta Cecchi Paone, mica sui diritti negati alle coppie omosessuali. Il dito punta la luna e noi non riusciamo a vedere nemmeno il dito. Il dito medio, quello sì, quello ci piace, facciamo finta di disprezzarne la volgarità, ma col sorrisetto. Siamo così, pure nel nostro cortiletto: il gossip ci ha estenuati, ma per carità, un occhio sul Novella 2000 della nostra vicina di ombrellone lo buttiamo comunque.

venerdì 25 maggio 2012

VITTIME DEL VITTIMISMO

Stamattina mi sono svegliato e mi son buttato sotto la doccia. Ché allo stadio sono maniaci dell’igiene personale, ed è bruttino quando migliaia di persone ti invitano gentilmente ad usare il sapone. Poi, fischiettando, ho messo su l’ultimo cd di Arisa, e ho cantato a squarciagola, con la mano sul petto e l’altra sull’ugola, per gorgheggiare a tono.
Ho immediatamente controllato i miei carichi pendenti, perché ogni volta che torno dalla partita mi sorge il dubbio: ma vuoi vedere che son camorrista e non me ne sono accorto? Poi ho chiamato l’istituto di vulcanologia, per le previsioni del meteo: hai visto mai che piova lava proprio oggi che ho fatto il bucato. Ho fatto il carico di Ciappi al supermarket e ho radunato i randagi del rione per una bella rimpatriata, e ve lo dico: i cani non scappano mica, sono degli amiconi. Anzi passo a salutare Gimbo, al canile, che tanto è di strada per l’ospedale.
Ah, non ve l’ho detto? Domenica sera, alla tv, su Rai Uno ho sentito un coro lontano che ha risvegliato la mia ipocondria: Napoli colera. Il colera? Ma davvero? Ma non era debellato? Ma no – m’ha detto mia moglie – è solo il tifo. Uddio, il tifo! Ma io c’avevo il vaccino… Insomma un controllino non fa mai male, e quindi eccomi qua: tuttapposto. Nonostante le tonnellate di munnezza invisibile, che prima o poi mi prenderanno per pazzo: la vedo solo io, ammassata negli anfratti del tappeto cittadino, nascosta per ribadire che il problema non c’è più, semmai c’è stato. Per contrabbandare un’immagine che conta più della sostanza. E conta difenderla, l’immagine, dagli attacchi di chi ci isola, noi partenopei.
E questo è il punto. Sono giorni che scartavetro i maroni giù al Comune perché ricontrollino i dati della carta d’identità: c’è scritto italiano. E mi assicurano che non è un refuso: Napoli è davvero in Italia, checché ne dicano i napoletani. Non in Africa, come dicono i tifosi della Juve, del Milan, dell’Inter… E non è nemmeno un’isola, pensa un po’. Anche se noi ce la cantiamo in falsetto: siamo noi, e basta. Unici, isolati, partenopei. Ci piace così, ce ne facciamo un vanto, coviamo l’ambizione che sia una realtà impostaci da altri, consegnataci da una storia che ci vede sempre nel ruolo di vittime. Ce ne lamentiamo, ma se ci accusano di vittimismo ci offendiamo.
Godiamo come ricci se vinciamo la Coppa Italia, ma ci neghiamo l’appartenenza all’Italia. Incolpiamo, ma non è mai colpa nostra. Viviamo per reazione, come se non agissimo mai, noi. Cittadini di un luogo comune sovraffollato. Ve ne rendete conto o no?
Ci facciamo metaforicamente la doccia quando ci urlano che “col sapone non ci siamo mai lavati”, e ci sporchiamo ancora, di più, quando rispondiamo. Incapaci, così facendo, di sentirci superiori, di non abbassarci ad un livello che pareggia tutto nella mediocrità. Incaponendoci a difendere i mandolini e le cartoline, tradendo Napoli, i napoletani, e i partenopei che se ne fottono delle etichette e che dimostrano la loro grandezza ogni giorno in silenzio. Che mostrano rispetto e non lo pretendono, e per questo lo ottengono.

lunedì 21 maggio 2012

LA NOTTE IN CUI CI SIAMO SCOPERTI MENO TIFOSI (IO E ILARIA)

Con Ilaria Puglia ci siamo sentiti dopo la vittoria del Napoli in Coppa Italia. E ci siamo sentiti vicini, e lontanissimi da una città ubriaca di festa. E quindi abbiamo scritto questa cosa a quattro mani, sul Napolista (e un po' anche qui):

IO – La notte in cui mi sono scoperto meno tifoso era cominciata bene: amici indivanati, pappatoria pronta, bimbi autorizzati a distruggere il resto della magione ma alla larga dalla tv. Ché c’era “la” finale. E se virgoletto “la” è perché intendo “l’unica finale” del Napoli, non “la grande  finale” del Napoli. E non è proprio la stessa cosa. Di questa mia intima teoria m’ero dovuto vergognare già nei giorni addietro, perché l’atarassia mal s’addiceva alla volata ad un evento paranormale del terzo tipo: il primo tipo, lo scudetto, il Napoli l’aveva snobbato per inseguire le vane glorie del secondo tipo, la Champions. E paranormale pure perché non ci trovo niente di normale, io, nell’approcciarsi alla Coppa Italia come al Mondiale e nel festeggiare, poi, la vittoria come se non ci fosse un domani.
ILARIA – La notte in cui mi sono scoperta meno tifosa era cominciata bene: puntuali davanti alla tv nonostante il weekend passato al mare. Valigie vuote, tutto in ordine, si poteva stare a impazzire sul divano nella battaglia per un trofeo. Eppure mi alzavo di continuo, addirittura lavavo i bambini durante il primo tempo, perdendomi dieci minuti di partita. Ché non riuscivo a considerare come un trofeo ma solo come una coppetta, riabilitata da qualche anno dall’accesso diretto all’Europa minore. Di questo mio pensiero mi ero dovuta vergognare già nei giorni addietro, perché non provavo neppure un fremito al pensiero del 20 maggio, anzi, questa data mi era anche venuta un po’ a noia, sembrando il mondo doversi fermare proprio quella domenica. Insomma, era tutto diverso dal solito, a partire dallo stato d’animo: al fischio di inizio pensai solo “stasera è diverso perché assisto, non gioco”.
IO - Ecco qua: mentre lo scrivo me ne vergogno, quasi in modalità psicoterapeutica. Che qualcuno mi salvi da questo nulla, per carità. La mia maschera è caduta miseramente mentre l’euforia generale montava al gol di Cavani, mentre mi grandinavano addosso da Twitter le gioie “virtuali” della feroce realtà: stavamo vincendo un trofeo. Ho avvertito la stessa sensazione di nulla, come se, dal momento che si trattava di un trofeo, nella mestizia di una attesa durata 25 anni, allora l’etichetta imponeva d’arraparsi come un adolescente davanti alla sua prima volta, e io semplicemente non ce la facevo.
ILARIA – Vorrei stendermi sul lettino di uno psicologo. Parlare del dolore per aver perso una Champions, di quel dolore che ho ricacciato dentro e che ieri è esploso di prepotenza. Perché questo è: io guardavo la finale di Coppa Italia e pensavo a Drogba che il giorno prima aveva alzato la Coppa dei Campioni. E provavo un’invidia folle, maledetta. E poi c’è l’aria asfittica, quella che si respira oggi. L’ha ufficializzata De Laurentiis: la prima vittoria della rinascita. Prima niente, è il passato, roba vecchia, emozioni smontate dalla storia. Cioè, io non so più chi sono: l’ho vissuto tutto quello che c’è stato prima, oppure no? Tutti respirano e io soffoco.
IO – Ecco come mi sento, oggi. Le ambizioni sono il sale dello sport, la misura delle cose impreziosisce l’esaltazione dei risultati. Non puoi trattare la Coppa Italia come la Champions, non è sano. Ma forse sono io a non essere sano. Non è sano, da parte mia, covare ancora risentimento per le occasioni sfumate, per quell’eliminazione buttata col Chelsea, per quel terzo posto che ci hanno regalato mille volte e che mille volte noi abbiamo girato ad altri. Ecco, il terzo posto l’avrei festeggiato di più, perché avrebbe significato un futuro prossimo di emozioni, altre notti da grandi del pallone, e non una “coppetta” consolatoria che ci introduce all’Europa minore, l’anno prossimo.
ILARIA – E quando la città intera, sull’1-0, aveva già cominciato a fare fuoco, io ero lì, imbambolata nel minimo sindacale della goduria: manco stessimo battendo un Chievo nel mezzo della stagione, contenti sì, ma insomma… Al raddoppio di Hamsik, mentre il Martire prendeva a calci il pallone in salotto dalla felicità, mentre persino i bambini si univano a noi nelle loro lacrimevoli proteste per la troppa confusione, ero già in un’altra dimensione: un posto brutto, orribile, in cui reputi tutto esagerato, fuori luogo, e al contempo ti senti tu fuori luogo, decontestualizzata, colpevole di essere tifosa ma non abbastanza tifosa, magari nemmeno tifosa per davvero.
IO – Affacciarmi al balcone e guardare con condiscendenza quei corpi spogliati nei caroselli notturni, ripetendomi: è la Coppa Italia guagliù, è solo la Coppa Italia e cogliendo l’immensità di tutto quel vuoto, perché a pensarla così ero solo io. Abbiamo battuto la Juve sì, ma quella già satolla di scudetto. Contento più per l’espulsione di Quagliarella (chiusura del cerchio, afammoc) che per tutto il resto. E un po’ triste, nella felicità generale, per l’addio di Lavezzi
ILARIA – Mio marito mi ha detto che sembravo un’ameba. Contenta più per la fine dell’attesa del mondo intero per questa domenica che per tutto il resto. E un po’ triste, nella felicità generale, perché commossa dalle lacrime di Lavezzi. Marco aveva gli occhi lucidi, che non ha avuto per la Champions, io, invece, che quando pareggiammo contro il Manchester mi inginocchiai piangendo in salotto, me li sentivo riarsi, al punto da pensare di metterci dentro un paio di lacrime artificiali.
VICINI E LONTANI – Sentirci rinfacciare una sobrietà di cui i napoletani devono essere sprovvisti per definizione ci fa male. Anche se vuol dire essere esclusi da un’isteria conformista, quella delle feste tutte uguali: e i clacson fino all’alba, e i tuffi nelle fontane, e il traffico bloccato, e i fuochi d’artificio, e il pullman scoperto. Come il Barcellona. Ma anche come il Torino che torna in A. Tutti uguali. E tutti ubriachi di gioia, tutti. E noi no. Scoprirci l’altra faccia della festa. Che vive le felicità per gradazioni, che non riesce a godere per il poco come se fosse il tutto. Forse, semplicemente, siamo meno tifosi. Stamattina, per strada, sbadigliavano tutti. Noi eravamo sveglissimi. Una solitudine rumorosissima, fatta di sogni presi a calci nel sedere, di sorrisi posticci. Praticamente, un incubo. 

venerdì 18 maggio 2012

IN DIVIETO DI SOSTA. A MIA INSAPUTA

Ve la faccio breve: ieri ho parcheggiato in divieto di sosta a mia insaputa. Cioè: per miracolo avevo trovato un posto regolare, strisce bianche apposite, per la mia moto, in via San Pasquale, quartiere Chiaia, Napoli """"bene"""" con mille virgolette e mimo esplicativo a supporto. Non uno scooter, badate: una moto da 200 kg, con un bel bloccadisco cementato alla ruota. Tempo tre ore, e al mio ritorno la mia moto non c'è più. Meglio: non c'è più nemmeno il parcheggio regolare per le moto. Solo una lunga fila ordinata di auto. Moto rubata? No, semplicemente spostata di peso e posizionata a 3-4 metri sul marciapiede, col manubrio appoggiato alla saracinesca di un negozio. Scorgo il parcheggiatore abusivo che svolge il suo onesto lavoro in una zona ufficialmente "bonificata" dal Comune, e vado a chiedere spiegazioni. Prima risposta: "Nun saccio niente, io guardo le macchine, non i mezzi". Insisto. Seconda risposta: "Saranno stati quelli che dovevano parcheggiare la macchina". No. Terza risposta: "Ma pecché, se pure fosse, qual è il pobblema?". Errore mio: mi porgo male. Quarta risposta: accerchiamento di altri tre energumeni spuntati presumibilmente dalle viscere della città  per magìa, due in scooter: "Capo, dici a noi, che vuò fa'?". Vabbé, decido pavidamente che non ci voglio arrivare alla quinta risposta, per cui mi allontano e vado in cerca di una pattuglia qualsiasi. Ma sono  le 22:30, mica è facile. Allora chiamo: non risponde nessuno. Nessuno per 10 lunghissimi minuti, né i vigili urbani, né la Polizia. Rispondono i Carabinieri e mi dicono onestamente che non manderanno una pattuglia per una cosa del genere. Prendo coscienza che non perderò ulteriore tempo per presentare una denuncia per spostamento fisico di motoveicolo. E me ne torno a casa con le pive nel sacco, incazzato come un ramarro, sperando che non mi arrivi, un giorno o l'altro, anche la multa per divieto di sosta. A mia insaputa.

martedì 15 maggio 2012

E QUI ITALIA

Quel che segue è quel che penso della questione Equitalia, estratto da un lungo e polemico carteggio con amici.


Lo Stato italiano ha delegato ad una società altra una cosa che dovrebbe essere di sua precipua pertinenza, solo perché non si sente, non è, in grado di svolgere il compito. Il che è svilente, e ha dei costi. Equitalia è una società per azioni a capitale interamente pubblico. Dalla riscossione delle tasse ci fa ricavi: più di un miliardo l'anno in sole commissioni. Che lo Stato tragga un profitto (diverso dalla tassa stessa) dalla riscossione dei tributi, per quanto mi riguarda, è già assurdo di per sé.
Inoltre lo Stato ha "regalato" ad Equitalia  una regolamentazione che di equo non ha assolutamente nulla e che gli permette di agire sul filo dell'usura e della molestia, lasciando il cittadino senza forme di tutela vere. La maggior parte dei cittadini non ha gli strumenti, il tempo e anche la voglia (sì, la voglia!) per stare dietro alle angherie alla quale è obbligata a sottostare dalla frammistione burocrazia-errori-strafottenza-disorganizzazione. Gli interessi elevati, i raddoppi delle sanzioni anche solo per un giorno di ritardo, ecc... i mezzi dissuasori forti cioé, se li può permettere un meccanismo sano, giusto, che riduce al minimo i danni collaterali ed è pronto a rispondere in proprio, e in immediato, degli errori commessi. Cosa che Equitalia non fa. La giustizia a senso unico non è giustizia. Vuoi fare lo Stato forte con me? Mi costringi a giorni di ferie, file interminabili, schedari vaticani nello sgabuzzino? Embé, se alla fine ti dimostro che hai sbagliato: mi ripaghi tutto, immediatamente, anche i danni morali. Questo fa uno Stato che funziona e non atterrisce i suoi contribuenti. In caso contrario questa S.P.A. è autorizzata dallo Stato ad usare una legislazione speciale per fare profitti. E punto.
Uno Stato debitore marcio, e creditore esemplare, che non ammette compensazioni, è nemico della giustizia. E il cittadino ha diritto pieno a ribellarsi (certo non con la violenza).  Quando Cancellieri dice che "chi colpisce Equitalia colpisce lo Stato" dimostra la sua pochezza analitica. Uno Stato che agisce in questa maniera merita poco, pochissimo rispetto. Diciamo il minimo legale.

mercoledì 2 maggio 2012

PROVACI TU A COMPRARE UN BIGLIETTO DEL FRECCIAROSSA ONLINE

E quindi oggi mi sono imbarcato nell'acquisto di un biglietto ferroviario. Una volta s'andava in agenzia, o facevi la fila in stazione. Oggi ti metti comodo davanti al pc, e pensi di risolvere la cosa in 2 minuti. E invece no. 
E invece ecco cosa ti tocca fare:

- Vai sul sito del conto in banca, e ricarichi la carta di credito prepagata. Dicono tutti che è più sicura no? 

- Vai sul sito di Trenitalia, nuovo nuovo perché quegli altri, Italo, fanno la (finta) concorrenza, e ti incammini nella sezione "acquista un carnet" (sì, io li compro a pacchetti da 10 i biglietti). Selezioni il tipo di treno e di tratta e...
- No, non puoi acquistare un carnet se non hai la tessera fedeltà. Infedele!
- Fai, dunque, la registrazione per la tessera fedeltà ed ottieni il tuo bravo codice fedeltà.
- Ricompili daccapo tutte le caselle e arrivi nella sezione pagamento.
- Scegli di usare la tua prepagata Mastercard. Riempi i campi che servono e il sistema va ad elaborare la richiesta...
- (attesa)
- "Ordine non processato"
- E che è successo? Errore 101: malfunzionamento del sistema di pagamento, riprovare più tardi. E se devi partire tra poco? Vabbé, non è il tuo caso e non fai polemica.
- Ti colleghi dopo un'ora e rifai tutto, di nuovo. Elaborazione... Errore 101!
- Uno qualunque (diciamo mia nonna?) chiamerebbe immediatamente Trenitalia per chiedere lumi. Ma la telefonata costa 40 cent di scatto alla risposta, e 50 centesimi al minuto. Calcoli che, considerate le ovvie attese, la telefonata ti costerebbe almeno 4-5 euro. Passi.
- E allora provi a cambiare: rifai ancora una volta tutto. Ricompili tutti i campi alla velocità della luce e scegli di usare stavolta la tua carta di credito Visa, quella normale.
- E no! Devi aderire al programma "Verified by Visa", per la tua sicurezza, è ovvio.
- Fai la registrazione a "Verified by Visa", ma ti dà errore: perché hai messo il Cap della tua città e non esattamente quello della tua abitazione. Ma come cazzo fanno a sapere dove abiti? Boh..
- Ok, ora ricompili il form per pagare e...
- Andata! Il carnet è tuo! Prodigio.
- Ora devi usare il carnet per prenotare il tuo viaggio. 
- Si ricomincia: compili l'impossibile ma alla fine ce la fai, hai il tuo posto prenotato sul Frecciarossa. E un po' di codici da segnarti. Ma tranquillo... c'è l'opzione "manda i dati del viaggio via sms".
- Inserisci il tuo numero di cellulare e...
- "Impossibile mandare l'sms"
- Azzanni il tavolo, sgranocchi un pezzettino di monitor saporito, e prendi nota sull'Iphone dei tuoi vari Pnr. Dai che è finita, un ultimo sforzo.
- Ti ricordi però che l'ultima volta beccasti un controllore-androide che per non farti la multa volle avere in visione documento d'identità, carnet, carta fedeltà (che non avevo) e analisi delle urine. Il carnet, lui lo voleva stampato su carta, proprio. Tu a questa cosa della carta ti ribellasti come un militante di Greenpeace al quale torturano il cucciolo di foca. Eh, hai il Pdf, fatti bastare il Pdf!
- E allora apri l'e-mail con la ricevuta del carnet dall'Iphone e speri di salvarti l'allegato sul telefonino...
- "Per visualizzare l'allegato scarica l'app di Adobe Acrobate".


Eviterò i particolari del linciaggio al quale ho sottoposto nella mezzora successiva il mio vecchio 3gs. E vado a fare i conti: per acquistare un carnet di biglietti e prenotare un viaggio sul Frecciarossa ci ho messo 45 minuti, inframmezzati da un'ora di stacco per far riposare il sistema dopo il fatidico "errore 101".


La prossima volta salgo senza biglietto, come i venditori di calzettini.

mercoledì 18 aprile 2012

AVEVAMO GIA' SCELTO

E’ troppo tardi. Siamo nel 2012. Ed è troppo tardi per riesumare un dibattito già ruminato dalla storia e dalla terra. Il finanziamento pubblico ai partiti non esiste. E’ morto da 19 anni, dal 1993. Stiamo parlando di zombie, ci stiamo gonfiando di livore sul nulla. C’è stato un referendum, c’è stato il popolo “sovrano” che ha infilato nelle urne un ordine alla politica, nell’unico modo diretto che la Costituzione gli riserva: “Basta soldi pubblici per sostentare le macchine burocratiche dei partiti”. Ecco, tutta questa bella – a volte pacata – discussione sull’opportunità, la forma, la sostanza, la quantità, la qualità, i modi del finanziamento ai partiti semplicemente non esiste. E’ un argomento illegale, irrispettoso delle regole della democrazia e del popolo “sovrano”. Non è “antipolitica” farlo notare. E’ politica di pancia. Ma è anche politica nella sua dimensione più alta. Urlare a questa società cieca che è troppo tardi. Non basta ora svegliarsi dal torpore perché Lusi o Belsito sono stati pescati a giocare sporco coi soldi nostri. Perché i soldi nostri, Lusi e Belsito, semplicemente non dovevano averli per le mani. Il momento giusto per parlare era nel 1994, quando la legge appena abrogata dal referendum fu riciclata in quella presa in giro dei “rimborsi elettorali”. Non è sul merito che dovevamo batterci allora, e non è tecnica la questione che finisce in agenda quasi venti anni dopo. E’ il principio che è stato circuito, raggirato, sfottuto, e buttato in discarica.
Oggi ci meritiamo le manfrine scandalose dei leader dei partiti di “maggioranza”. Bersani, Casini, Alfano: un asse perfettamente diagonale che non ha problemi a dichiarare, travalicando il ridicolo e l’opportunità, che cancellare i rimborsi elettorali “sarebbe un errore drammatico perché metterebbe la politica in mano alle lobbies”. Non può esserci, dopo 19 anni di abuso, la sorpresa. La mancanza di gusto da parte dei partiti, nel rispondere attaccando invece di restare dignitosamente in silenzio, è ovvia. E’ fisiologica. Ora, poi, a richiamare quel benedetto referendum del ‘93 fai pure la parte del bolso retore ingoiato dagli eventi. Urli sfibrando le corde vocali ad una società sorda, che ha dimenticato, ha digerito, o più facilmente se ne fotte. Il dibattito non andava accettato. Non doveva essere un dibattito. Non si torna indietro. Ci siamo già passati. Abbiamo già scelto. Ci avete già preso in giro. Ora fate un po’ quel che vi pare. Questa è antipolitica. Ed è l’unica reazione sana di un Paese con l’Alzheimer.

giovedì 5 aprile 2012

I "SUOI", DI BOSSI, SONO LA POLIZIA DI STATO

Questo è il video in cui potete godervi Umberto Bossi - stipendiato dai cittadini italiani - che invita le forze dell'ordine - stipendiate dai cittadini italiani - a "picchiare" e "investire" il giornalista di La7. Lo manda affanculo, ma questa è prassi. Quel che mi interessa sottolineare è l'ultimo pezzettino di audio, ascoltate bene:



C'è un poliziotto - si suppone - che si sente in dovere di puntualizzare inorgoglito che "i suoi" sono "la Polizia di Stato". E che non si permettesse - il giornalista - di appellarli come uomini di Bossi.
E capisco che la cosa possa risultare offensiva. Ma fino ad un attimo prima, caro Poliziotto di Stato, te ne sei stato lì a prendere ordini da quello lì: "Picchialo... investilo!". Ecco, facciamo che la prossima volta vai da Bossi a puntualizzare che tu sei "la Polizia di Stato" e non uno sgherro qualunque? E che sei lì per proteggere, evidentemente, la sua incolumità e stop? E che sei lì per "servire" lo Stato italiano, e quindi anche quel giornalista che voleva fare qualche domanda? Grazie.