Stamattina mi sono svegliato e mi son buttato sotto la doccia. Ché allo stadio sono maniaci dell’igiene personale, ed è bruttino quando migliaia di persone ti invitano gentilmente ad usare il sapone. Poi, fischiettando, ho messo su l’ultimo cd di Arisa, e ho cantato a squarciagola, con la mano sul petto e l’altra sull’ugola, per gorgheggiare a tono.
Ho immediatamente controllato i miei carichi pendenti, perché ogni volta che torno dalla partita mi sorge il dubbio: ma vuoi vedere che son camorrista e non me ne sono accorto? Poi ho chiamato l’istituto di vulcanologia, per le previsioni del meteo: hai visto mai che piova lava proprio oggi che ho fatto il bucato. Ho fatto il carico di Ciappi al supermarket e ho radunato i randagi del rione per una bella rimpatriata, e ve lo dico: i cani non scappano mica, sono degli amiconi. Anzi passo a salutare Gimbo, al canile, che tanto è di strada per l’ospedale.
Ah, non ve l’ho detto? Domenica sera, alla tv, su Rai Uno ho sentito un coro lontano che ha risvegliato la mia ipocondria: Napoli colera. Il colera? Ma davvero? Ma non era debellato? Ma no – m’ha detto mia moglie – è solo il tifo. Uddio, il tifo! Ma io c’avevo il vaccino… Insomma un controllino non fa mai male, e quindi eccomi qua: tuttapposto. Nonostante le tonnellate di munnezza invisibile, che prima o poi mi prenderanno per pazzo: la vedo solo io, ammassata negli anfratti del tappeto cittadino, nascosta per ribadire che il problema non c’è più, semmai c’è stato. Per contrabbandare un’immagine che conta più della sostanza. E conta difenderla, l’immagine, dagli attacchi di chi ci isola, noi partenopei.
E questo è il punto. Sono giorni che scartavetro i maroni giù al Comune perché ricontrollino i dati della carta d’identità: c’è scritto italiano. E mi assicurano che non è un refuso: Napoli è davvero in Italia, checché ne dicano i napoletani. Non in Africa, come dicono i tifosi della Juve, del Milan, dell’Inter… E non è nemmeno un’isola, pensa un po’. Anche se noi ce la cantiamo in falsetto: siamo noi, e basta. Unici, isolati, partenopei. Ci piace così, ce ne facciamo un vanto, coviamo l’ambizione che sia una realtà impostaci da altri, consegnataci da una storia che ci vede sempre nel ruolo di vittime. Ce ne lamentiamo, ma se ci accusano di vittimismo ci offendiamo.
Godiamo come ricci se vinciamo la Coppa Italia, ma ci neghiamo l’appartenenza all’Italia. Incolpiamo, ma non è mai colpa nostra. Viviamo per reazione, come se non agissimo mai, noi. Cittadini di un luogo comune sovraffollato. Ve ne rendete conto o no?
Ci facciamo metaforicamente la doccia quando ci urlano che “col sapone non ci siamo mai lavati”, e ci sporchiamo ancora, di più, quando rispondiamo. Incapaci, così facendo, di sentirci superiori, di non abbassarci ad un livello che pareggia tutto nella mediocrità. Incaponendoci a difendere i mandolini e le cartoline, tradendo Napoli, i napoletani, e i partenopei che se ne fottono delle etichette e che dimostrano la loro grandezza ogni giorno in silenzio. Che mostrano rispetto e non lo pretendono, e per questo lo ottengono.
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